CULTURA BELLICISTA E MILITARIZZAZIONE: DALLO STATO SOCIALE ALLO STATO DI GUERRA

FINANZIARIZZAZIONE, GUERRA E CAOS STRATEGICO: UN’ANALISI AMPLIFICATA

La finanziarizzazione non è un mero meccanismo economico, ma il cuore pulsante di una logica di dominio che trova nella guerra un elemento strutturale. La concentrazione di potere finanziario in pochi fondi globali conferisce loro la capacità di plasmare i mercati e condizionare le politiche nazionali, trasformandoli in veri e propri architetti di instabilità sistemica. La speculazione, motore di un profitto slegato da considerazioni sociali e umane, genera le condizioni ideali per conflitti e crisi. In questa prospettiva, la guerra non è un’anomalia, ma una conseguenza logica di un sistema che pone il guadagno al di sopra di ogni valore, inclusa la vita umana.

La competizione per le risorse, l’apertura di nuovi mercati, il controllo delle rotte commerciali e l’accumulazione di capitale attraverso la distruzione e la ricostruzione sono dinamiche storicamente radicate. La finanziarizzazione le amplifica, rendendo il conflitto un’opzione “razionale” per chi detiene il potere economico, alimentando un ciclo perverso di instabilità e violenza.

INDUSTRIA BELLICA E TECNOLOGIA: UN’ALLEANZA MORTIFERA CHE SI RAFFORZA

L’afflusso crescente di capitali verso l’industria militare conferma la priorità data alla distruzione rispetto al benessere sociale. La commistione tra industria bellica, ricerca scientifica e stati è da tempo particolarmente allarmante. Università e istituti di ricerca, finanziati con fondi pubblici, sono sempre più coinvolti nello sviluppo di tecnologie militari, tradendo la loro vocazione al progresso per il bene comune. Le scoperte scientifiche, potenzialmente utili per migliorare la vita, vengono piegate alla logica della guerra, sperimentate e testate sui campi di battaglia.

Gli stati, presentati come garanti della sicurezza, sono i principali investitori e beneficiari di questa industria della morte. La divisione del lavoro a livello internazionale, con la preminenza degli USA, consolida questa dinamica, creando una rete di interessi che rende difficile smantellare il complesso militar-industriale. L’aumento esponenziale delle spese militari, a discapito di quelle sociali, riflette una visione del mondo in cui la forza e la violenza sono considerate strumenti legittimi di potere, perpetuando un circolo vizioso di conflitto e spesa militare.

La scelta del riarmo dell’Unione Europea, guidata dagli oligopoli industrial-finanziari occidentali con l’egemonia USA, segna una deriva bellicista che presenta l’aumento delle spese militari come una necessità impellente di fronte all’imperialismo russo. Questa narrazione ignora il fatto che il riarmo rappresenta l’opportunità per rilanciare i profitti di un sistema mercantile in crisi, inondando l’industria militare di finanziamenti certi che permettono ricerca e sviluppo. Si assiste a una riconversione produttiva bellica nella catena di fornitura dell’automotive e alla trasformazione di stabilimenti auto in produttori di armi, oltre alla creazione di joint venture e all’ingresso massiccio di capitali, soprattutto USA, negli assetti azionari di gruppi come Leonardo in Italia.

Questo cambiamento di priorità porta a una drastica riduzione dei trasferimenti statali destinati alle spese sociali: sanità, trasporti pubblici, istruzione, pensioni e tutto ciò che compone il welfare. Si ridimensiona lo stato sociale a favore di uno stato di guerra, dove la sicurezza sociale (reddito, sanità, istruzione, beni comuni) viene sacrificata sull’altare del riarmo. L’informazione sui vari passaggi si sviluppa a reti unificate, con un dispiegamento culturale che presenta la guerra e il riarmo come una necessità, sostenendo la superiorità culturale dell’Occidente. Questa forma di keynesismo militare, presentata come soluzione ai mali dell’industria e mantenimento dell’occupazione, viene finanziata anche con l’aumento del deficit statale, pagato sempre a discapito delle spese sociali e con l’aumento dell’inflazione.

Si acuisce l’accanimento contro la povertà, gli emarginati, i migranti, il maschilismo e il disprezzo verso chi si trova in difficoltà, con tagli alle forme di solidarietà e la ripresa del ruolo di organizzazioni fasciste.

A partire dalla scuola,in cui l’ingresso del ministero della Difesa comincia con il Governo Renzi ma in cui gli spazi di elaborazione di pensiero critico sono sempre più ridotti a favore di disciplina e propaganda, la militarizzazione della società comporta un restringimento delle libertà sociali e individuali, la messa al bando dei comportamenti e dei pensieri alternativi. Il militare viene presentato come parte indispensabile del corpo sociale, con propaganda nelle scuole e presenza di militari nelle città. Sul territorio la retorica securitaria è ormai sconfinata in zone rosse e forme esasperate di controllo digitale, il dissenso sociale oggetto di repressione autoritaria e del dilagare di comportamenti a sostegno delle decisioni governative. La ricerca in campo militare, che coinvolge anche università e politecnici, viene utilizzata per il controllo sociale e individuale attraverso tecnologie sofisticate e invasive, con l’intelligenza artificiale che si inserisce in questo percorso, delineando come punto di arrivo uno stato di polizia.

IL DDL 1660: UN ULTERIORE PASSO VERSO LA MILITARIZZAZIONE E LA REPRESSIONE

La tendenza a trasformare reati amministrativi in penali, che alimenta il pensiero securitario, è un ulteriore elemento di preoccupazione, così come il riequilibrio dei poteri dello Stato ormai da tempo sbilanciato a favore dell’Esecutivo, ormai un Premierato di fatto. In questo contesto di crescente militarizzazione e deriva autoritaria si inserisce il ddl 1660, che rappresenta un ulteriore passo verso la militarizzazione del Paese: non solo riposiziona il ruolo dello Stato in linea con un’economia di guerra, ma criminalizza ogni forma di conflittualità, in un contesto di crescente crisi economica e sociale acuita dai conflitti.

Il ddl 1660 interviene contro occupanti di case, migranti, operai, movimenti ambientalisti e pacifisti. Emblematico è il reato di “blocco stradale”, con aggravanti legate alla resistenza a pubblico ufficiale, se commesso durante manifestazioni contro grandi opere o basi militari. Il diritto penale diventa così uno strumento per disincentivare il dissenso, alimentando paura e restringendo gli spazi di libertà. Al di là dei tecnicismi, pure importanti, è necessaria una ricomposizione organica delle critiche e delle mobilitazioni per evidenziare la natura repressiva del ddl, che punta a instaurare uno stato di polizia attraverso legislazioni emergenziali.

 

CONCLUSIONI: LA NECESSITÀ DI UN ANTIMILITARISMO RADICALE E DIFFUSO

L’antimilitarismo non si limita a denunciare la guerra, ma ne individua le radici nel sistema capitalista e nella logica di dominio che lo caratterizza. È necessario costruire un movimento antimilitarista radicale e diffuso, capace di connettere la lotta contro la guerra con la lotta per un mondo più giusto e libertario. Questo implica:

  • Denunciare il ruolo della finanza e delle grandi corporation nella promozione della guerra.
  • Opporsi all’industria bellica e al suo legame con la ricerca scientifica.
  • Smantellare la cultura bellicista attraverso l’informazione, la contro-informazione e l’azione diretta.
  • Resistere alla militarizzazione del territorio e alla repressione del dissenso, come esemplificato dal ddl 1660.
  • Costruire reti di solidarietà e azione a livello locale, nazionale e internazionale.
  • Promuovere alternative nonviolente alla risoluzione dei conflitti.
  • Lottare per una società senza classi, senza stati e senza guerre, promuovendo un elogio e una pratica della diserzione rispetto alla retorica del patriottismo e dell’insicurezza sociale.

Solo attraverso un impegno costante e radicale sarà possibile costruire un futuro di pace e libertà.

FINANZIARIZZAZIONE, GUERRA E CAOS STRATEGICO: UN’ANALISI AMPLIFICATA

La finanziarizzazione non è un mero meccanismo economico, ma il cuore pulsante di una logica di dominio che trova nella guerra un elemento strutturale. La concentrazione di potere finanziario in pochi fondi globali conferisce loro la capacità di plasmare i mercati e condizionare le politiche nazionali, trasformandoli in veri e propri architetti di instabilità sistemica. La speculazione, motore di un profitto slegato da considerazioni sociali e umane, genera le condizioni ideali per conflitti e crisi. In questa prospettiva, la guerra non è un’anomalia, ma una conseguenza logica di un sistema che pone il guadagno al di sopra di ogni valore, inclusa la vita umana.

La competizione per le risorse, l’apertura di nuovi mercati, il controllo delle rotte commerciali e l’accumulazione di capitale attraverso la distruzione e la ricostruzione sono dinamiche storicamente radicate. La finanziarizzazione le amplifica, rendendo il conflitto un’opzione “razionale” per chi detiene il potere economico, alimentando un ciclo perverso di instabilità e violenza.

INDUSTRIA BELLICA E TECNOLOGIA: UN’ALLEANZA MORTIFERA CHE SI RAFFORZA

L’afflusso crescente di capitali verso l’industria militare conferma la priorità data alla distruzione rispetto al benessere sociale. La commistione tra industria bellica, ricerca scientifica e stati è da tempo particolarmente allarmante. Università e istituti di ricerca, finanziati con fondi pubblici, sono sempre più coinvolti nello sviluppo di tecnologie militari, tradendo la loro vocazione al progresso per il bene comune. Le scoperte scientifiche, potenzialmente utili per migliorare la vita, vengono piegate alla logica della guerra, sperimentate e testate sui campi di battaglia.

Gli stati, presentati come garanti della sicurezza, sono i principali investitori e beneficiari di questa industria della morte. La divisione del lavoro a livello internazionale, con la preminenza degli USA, consolida questa dinamica, creando una rete di interessi che rende difficile smantellare il complesso militar-industriale. L’aumento esponenziale delle spese militari, a discapito di quelle sociali, riflette una visione del mondo in cui la forza e la violenza sono considerate strumenti legittimi di potere, perpetuando un circolo vizioso di conflitto e spesa militare.

La scelta del riarmo dell’Unione Europea, guidata dagli oligopoli industrial-finanziari occidentali con l’egemonia USA, segna una deriva bellicista che presenta l’aumento delle spese militari come una necessità impellente di fronte all’imperialismo russo. Questa narrazione ignora il fatto che il riarmo rappresenta l’opportunità per rilanciare i profitti di un sistema mercantile in crisi, inondando l’industria militare di finanziamenti certi che permettono ricerca e sviluppo. Si assiste a una riconversione produttiva bellica nella catena di fornitura dell’automotive e alla trasformazione di stabilimenti auto in produttori di armi, oltre alla creazione di joint venture e all’ingresso massiccio di capitali, soprattutto USA, negli assetti azionari di gruppi come Leonardo in Italia.

Questo cambiamento di priorità porta a una drastica riduzione dei trasferimenti statali destinati alle spese sociali: sanità, trasporti pubblici, istruzione, pensioni e tutto ciò che compone il welfare. Si ridimensiona lo stato sociale a favore di uno stato di guerra, dove la sicurezza sociale (reddito, sanità, istruzione, beni comuni) viene sacrificata sull’altare del riarmo. L’informazione sui vari passaggi si sviluppa a reti unificate, con un dispiegamento culturale che presenta la guerra e il riarmo come una necessità, sostenendo la superiorità culturale dell’Occidente. Questa forma di keynesismo militare, presentata come soluzione ai mali dell’industria e mantenimento dell’occupazione, viene finanziata anche con l’aumento del deficit statale, pagato sempre a discapito delle spese sociali e con l’aumento dell’inflazione.

Si acuisce l’accanimento contro la povertà, gli emarginati, i migranti, il maschilismo e il disprezzo verso chi si trova in difficoltà, con tagli alle forme di solidarietà e la ripresa del ruolo di organizzazioni fasciste.

A partire dalla scuola,in cui l’ingresso del ministero della Difesa comincia con il Governo Renzi ma in cui gli spazi di elaborazione di pensiero critico sono sempre più ridotti a favore di disciplina e propaganda, la militarizzazione della società comporta un restringimento delle libertà sociali e individuali, la messa al bando dei comportamenti e dei pensieri alternativi. Il militare viene presentato come parte indispensabile del corpo sociale, con propaganda nelle scuole e presenza di militari nelle città. Sul territorio la retorica securitaria è ormai sconfinata in zone rosse e forme esasperate di controllo digitale, il dissenso sociale oggetto di repressione autoritaria e del dilagare di comportamenti a sostegno delle decisioni governative. La ricerca in campo militare, che coinvolge anche università e politecnici, viene utilizzata per il controllo sociale e individuale attraverso tecnologie sofisticate e invasive, con l’intelligenza artificiale che si inserisce in questo percorso, delineando come punto di arrivo uno stato di polizia.

IL DDL 1660: UN ULTERIORE PASSO VERSO LA MILITARIZZAZIONE E LA REPRESSIONE

La tendenza a trasformare reati amministrativi in penali, che alimenta il pensiero securitario, è un ulteriore elemento di preoccupazione, così come il riequilibrio dei poteri dello Stato ormai da tempo sbilanciato a favore dell’Esecutivo, ormai un Premierato di fatto. In questo contesto di crescente militarizzazione e deriva autoritaria si inserisce il ddl 1660, che rappresenta un ulteriore passo verso la militarizzazione del Paese: non solo riposiziona il ruolo dello Stato in linea con un’economia di guerra, ma criminalizza ogni forma di conflittualità, in un contesto di crescente crisi economica e sociale acuita dai conflitti.

Il ddl 1660 interviene contro occupanti di case, migranti, operai, movimenti ambientalisti e pacifisti. Emblematico è il reato di “blocco stradale”, con aggravanti legate alla resistenza a pubblico ufficiale, se commesso durante manifestazioni contro grandi opere o basi militari. Il diritto penale diventa così uno strumento per disincentivare il dissenso, alimentando paura e restringendo gli spazi di libertà. Al di là dei tecnicismi, pure importanti, è necessaria una ricomposizione organica delle critiche e delle mobilitazioni per evidenziare la natura repressiva del ddl, che punta a instaurare uno stato di polizia attraverso legislazioni emergenziali.

 

CONCLUSIONI: LA NECESSITÀ DI UN ANTIMILITARISMO RADICALE E DIFFUSO

L’antimilitarismo non si limita a denunciare la guerra, ma ne individua le radici nel sistema capitalista e nella logica di dominio che lo caratterizza. È necessario costruire un movimento antimilitarista radicale e diffuso, capace di connettere la lotta contro la guerra con la lotta per un mondo più giusto e libertario. Questo implica:

  • Denunciare il ruolo della finanza e delle grandi corporation nella promozione della guerra.
  • Opporsi all’industria bellica e al suo legame con la ricerca scientifica.
  • SFINANZIARIZZAZIONE, GUERRA E CAOS STRATEGICO: UN’ANALISI AMPLIFICATALa finanziarizzazione non è un mero meccanismo economico, ma il cuore pulsante di una logica di dominio che trova nella guerra un elemento strutturale. La concentrazione di potere finanziario in pochi fondi globali conferisce loro la capacità di plasmare i mercati e condizionare le politiche nazionali, trasformandoli in veri e propri architetti di instabilità sistemica. La speculazione, motore di un profitto slegato da considerazioni sociali e umane, genera le condizioni ideali per conflitti e crisi. In questa prospettiva, la guerra non è un’anomalia, ma una conseguenza logica di un sistema che pone il guadagno al di sopra di ogni valore, inclusa la vita umana.

    La competizione per le risorse, l’apertura di nuovi mercati, il controllo delle rotte commerciali e l’accumulazione di capitale attraverso la distruzione e la ricostruzione sono dinamiche storicamente radicate. La finanziarizzazione le amplifica, rendendo il conflitto un’opzione “razionale” per chi detiene il potere economico, alimentando un ciclo perverso di instabilità e violenza.

    INDUSTRIA BELLICA E TECNOLOGIA: UN’ALLEANZA MORTIFERA CHE SI RAFFORZA

    L’afflusso crescente di capitali verso l’industria militare conferma la priorità data alla distruzione rispetto al benessere sociale. La commistione tra industria bellica, ricerca scientifica e stati è da tempo particolarmente allarmante. Università e istituti di ricerca, finanziati con fondi pubblici, sono sempre più coinvolti nello sviluppo di tecnologie militari, tradendo la loro vocazione al progresso per il bene comune. Le scoperte scientifiche, potenzialmente utili per migliorare la vita, vengono piegate alla logica della guerra, sperimentate e testate sui campi di battaglia.

    Gli stati, presentati come garanti della sicurezza, sono i principali investitori e beneficiari di questa industria della morte. La divisione del lavoro a livello internazionale, con la preminenza degli USA, consolida questa dinamica, creando una rete di interessi che rende difficile smantellare il complesso militar-industriale. L’aumento esponenziale delle spese militari, a discapito di quelle sociali, riflette una visione del mondo in cui la forza e la violenza sono considerate strumenti legittimi di potere, perpetuando un circolo vizioso di conflitto e spesa militare.

    La scelta del riarmo dell’Unione Europea, guidata dagli oligopoli industrial-finanziari occidentali con l’egemonia USA, segna una deriva bellicista che presenta l’aumento delle spese militari come una necessità impellente di fronte all’imperialismo russo. Questa narrazione ignora il fatto che il riarmo rappresenta l’opportunità per rilanciare i profitti di un sistema mercantile in crisi, inondando l’industria militare di finanziamenti certi che permettono ricerca e sviluppo. Si assiste a una riconversione produttiva bellica nella catena di fornitura dell’automotive e alla trasformazione di stabilimenti auto in produttori di armi, oltre alla creazione di joint venture e all’ingresso massiccio di capitali, soprattutto USA, negli assetti azionari di gruppi come Leonardo in Italia.

    Questo cambiamento di priorità porta a una drastica riduzione dei trasferimenti statali destinati alle spese sociali: sanità, trasporti pubblici, istruzione, pensioni e tutto ciò che compone il welfare. Si ridimensiona lo stato sociale a favore di uno stato di guerra, dove la sicurezza sociale (reddito, sanità, istruzione, beni comuni) viene sacrificata sull’altare del riarmo. L’informazione sui vari passaggi si sviluppa a reti unificate, con un dispiegamento culturale che presenta la guerra e il riarmo come una necessità, sostenendo la superiorità culturale dell’Occidente. Questa forma di keynesismo militare, presentata come soluzione ai mali dell’industria e mantenimento dell’occupazione, viene finanziata anche con l’aumento del deficit statale, pagato sempre a discapito delle spese sociali e con l’aumento dell’inflazione.

    Si acuisce l’accanimento contro la povertà, gli emarginati, i migranti, il maschilismo e il disprezzo verso chi si trova in difficoltà, con tagli alle forme di solidarietà e la ripresa del ruolo di organizzazioni fasciste.

    A partire dalla scuola,in cui l’ingresso del ministero della Difesa comincia con il Governo Renzi ma in cui gli spazi di elaborazione di pensiero critico sono sempre più ridotti a favore di disciplina e propaganda, la militarizzazione della società comporta un restringimento delle libertà sociali e individuali, la messa al bando dei comportamenti e dei pensieri alternativi. Il militare viene presentato come parte indispensabile del corpo sociale, con propaganda nelle scuole e presenza di militari nelle città. Sul territorio la retorica securitaria è ormai sconfinata in zone rosse e forme esasperate di controllo digitale, il dissenso sociale oggetto di repressione autoritaria e del dilagare di comportamenti a sostegno delle decisioni governative. La ricerca in campo militare, che coinvolge anche università e politecnici, viene utilizzata per il controllo sociale e individuale attraverso tecnologie sofisticate e invasive, con l’intelligenza artificiale che si inserisce in questo percorso, delineando come punto di arrivo uno stato di polizia.

    IL DDL 1660: UN ULTERIORE PASSO VERSO LA MILITARIZZAZIONE E LA REPRESSIONE

    La tendenza a trasformare reati amministrativi in penali, che alimenta il pensiero securitario, è un ulteriore elemento di preoccupazione, così come il riequilibrio dei poteri dello Stato ormai da tempo sbilanciato a favore dell’Esecutivo, ormai un Premierato di fatto. In questo contesto di crescente militarizzazione e deriva autoritaria si inserisce il ddl 1660, che rappresenta un ulteriore passo verso la militarizzazione del Paese: non solo riposiziona il ruolo dello Stato in linea con un’economia di guerra, ma criminalizza ogni forma di conflittualità, in un contesto di crescente crisi economica e sociale acuita dai conflitti.

    Il ddl 1660 interviene contro occupanti di case, migranti, operai, movimenti ambientalisti e pacifisti. Emblematico è il reato di “blocco stradale”, con aggravanti legate alla resistenza a pubblico ufficiale, se commesso durante manifestazioni contro grandi opere o basi militari. Il diritto penale diventa così uno strumento per disincentivare il dissenso, alimentando paura e restringendo gli spazi di libertà. Al di là dei tecnicismi, pure importanti, è necessaria una ricomposizione organica delle critiche e delle mobilitazioni per evidenziare la natura repressiva del ddl, che punta a instaurare uno stato di polizia attraverso legislazioni emergenziali.

     

    CONCLUSIONI: LA NECESSITÀ DI UN ANTIMILITARISMO RADICALE E DIFFUSO

    L’antimilitarismo non si limita a denunciare la guerra, ma ne individua le radici nel sistema capitalista e nella logica di dominio che lo caratterizza. È necessario costruire un movimento antimilitarista radicale e diffuso, capace di connettere la lotta contro la guerra con la lotta per un mondo più giusto e libertario. Questo implica:

    • Denunciare il ruolo della finanza e delle grandi corporation nella promozione della guerra.
    • Opporsi all’industria bellica e al suo legame con la ricerca scientifica.
    • Smantellare la cultura bellicista attraverso l’informazione, la contro-informazione e l’azione diretta.
    • Resistere alla militarizzazione del territorio e alla repressione del dissenso, come esemplificato dal ddl 1660.
    • Costruire reti di solidarietà e azione a livello locale, nazionale e internazionale.
    • Promuovere alternative nonviolente alla risoluzione dei conflitti.
    • Lottare per una società senza classi, senza stati e senza guerre, promuovendo un elogio e una pratica della diserzione rispetto alla retorica del patriottismo e dell’insicurezza sociale.

    Solo attraverso un impegno costante e radicale sarà possibile costruire un futuro di pace e libertà.

    mantellare la cultura bellicista attraverso l’informazione, la contro-informazione e l’azione diretta.

  • Resistere alla militarizzazione del territorio e alla repressione del dissenso, come esemplificato dal ddl 1660.
  • Costruire reti di solidarietà e azione a livello locale, nazionale e internazionale.
  • Promuovere alternative nonviolente alla risoluzione dei conflitti.
  • Lottare per una società senza classi, senza stati e senza guerre, promuovendo un elogio e una pratica della diserzione rispetto alla retorica del patriottismo e dell’insicurezza sociale.

Solo attraverso un impegno costante e radicale sarà possibile costruire un futuro di pace e libertà.


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